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L’AMICA GENIALE non è un capolavoro, ma... [SPOILER]



Mi sono approcciata alla tetralogia di Elena Ferrante con qualche riserva, un po' perché ormai l'avevano letta tutti, un po' perché le narrazioni distribuite su più volumi non mi convincono, mi mettono ansia. I miei timori sono stati in parte confermati: ho letto i quattro romanzi in preda ad una strana agitazione, ad una curiosità snervante che mi ha portato allo sfinimento. Ho letto, nell'arco di una decina di giorni, circa 1600 pagine. È una novità per me, che sono da sempre una lettrice lenta, che odia divorare i libri: ho bisogno di tempo per metabolizzare emozioni e informazioni, per riflettere sulle parole, sull'andamento degli eventi, sui personaggi. Questa volta, però, è andata così, e l'esperienza di lettura è stata solo in parte alterata in negativo: ho apprezzato la tetralogia anche a questi ritmi folli.

Da subito mi sento di dire questo: "L'amica geniale" non è un capolavoro, ma comprendo a pieno il successo che ha avuto. Ne riconosco i meriti e i pregi. È alta letteratura? Non lo so, in parte sì, in parte no. È un'opera letteraria imprescindibile? No, ma se non la si legge si perde l'occasione di una lettura interessante e a tratti sorprendente. È un testo impegnato? Sì e no: sì, perché la Ferrante dimostra in certi passaggi acume e spessore, no, perché in altri c'è la leggerezza tipica dell'intrattenimento.

Il punto, però, è proprio questo: "L'amica geniale" è un'opera riuscita perché appartiene a una categoria di libri sempre più rara e sottovalutata, quella dei romanzi che intrattengono con intelligenza, con ingegno, con consapevolezza. Non un intrattenimento frivolo, insomma, ma sagace e a suo modo profondo, perché mai vincolato al luogo comune.  

Il segreto è in questo: la Ferrante è riuscita ad accontentare migliaia e migliaia di lettori senza mai assecondarli. E ci è riuscita perché in tutto - nello stile, nel registro linguistico, nei personaggi, nell'intreccio narrativo - c'è una profondità leggera, una pregnanza di significato e una visione del mondo così originale e al contempo così vicina alla realtà quotidiana, che la bontà dei romanzi è riconosciuta più o meno all'unanimità, sia dai lettori forti che da quelli più incostanti.

C'è nella scrittura qualcosa di scomodo che non conosce conciliazione, una tensione angosciosa che rimescola e riformula tutto freneticamente, senza soluzione di continuità. Non c'è forma, non ci sono margini, non ci sono confini: c'è solo un perenne quanto frustrante tentativo di definizione da parte della voce narrante, una ricerca senza sbocchi, uno sforzo di comprensione spesso mal ripagato.
Questo non significa che si è di fronte a un testo frammentario o caotico, anzi. Tutto è estremamente armonioso perché ben costruito e meditato. L'abilità della Ferrante consiste proprio in questo dare ordine al caos, in questo mettere in scena il non-senso attraverso un filo narrativo che, nonostante l'assenza della pretesa di fornire a chi legge una precisa chiave di lettura o un insegnamento, trova in sé la propria giustificazione.


Voltata l'ultima pagina della tetralogia, mi sono sentita emotivamente disorientata. C'era nel finale qualcosa di ambiguo che mi lasciava letteralmente senza parole, priva della capacità di fare un'analisi oggettiva di ciò che avevo appena finito di leggere. L'ultimo capitolo, in particolare, mi ha turbata parecchio. Non riuscivo a cogliere il significato ultimo dell'immagine delle due bambole - Tina e Nu - ritornate alla luce dopo decenni di oscurità, rinate e resuscitate per mano della mente irrequieta di Lila. Qualcosa di importante mi stava evidentemente sfuggendo.
Mi sono data del tempo per pensare, ne ho discusso con un'amica che ha letto e come me ha apprezzato la tetralogia, e sono giunta a una conclusione, a un'elaborazione di ciò che fastidiosamente non riuscivo a cogliere.

Mi sono chiesta: cosa c'è dietro l'ultima mossa di Lila? Perché al gesto estetico della cancellazione di sé segue un altro gesto, di natura opposta, un gesto rivelatore?

Lila si dissolve, si libera del sottilissimo nastrino che è il suo nome, e le bambole - l'oggetto simbolico dell'inizio della sua amicizia con Elena e del gioco di subalternità che ad essa si accompagna - ricompaiono grazie alla sua volontà creatrice, compiendo un viaggio contrario a quello della discesa nel buio di tanti anni prima: dalla tetra cantina del cortile, Tina e Nu ritornano alla luce del sole rinascendo a nuova vita. Ritornano sporche, brutte e ammuffite, ma ritornano, e lo fanno solo quando Lila riesce nell'intento di frantumarsi, di disperdersi, di lasciarsi tutto e tutti alle spalle.

Lila scompare, ma qualcos'altro riemerge dal fondo oscuro delle cose: il senso di un'amicizia diversa e stravolta, perché estranea a quel senso di ossessiva appartenenza a cui la voce narrante di Elena Greco ci aveva abituati. In tutti e quattro i volumi questa amicizia è sempre stata messa in scena da Elena come una somma: Lila più Elena, Lila dentro Elena, Lila con Elena. Ma ora, nel finale, Lila distrugge il vecchio significato per crearne uno nuovo: restituisce Elena a Elena. Il viaggio delle bambole dal buio della cantina alla luce del sole è il viaggio di Elena verso Elena, dal suo sentimento di appartenenza a Lila a quello di appartenenza a se stessa. 

Con quest'ultimo gesto di presenza Lila sta dicendo ad Elena: "Ora che io finalmente mi sono cancellata, ora che io per te non ci sono più, tu puoi tornare finalmente a te e in te. Non ti offusco più con la mia presenza: questo, e solo questo, è il mio riscatto per te".




Perché è questo che fa Lila Cerullo: offusca con il proprio significato personale il resto del senso. Lila fa e reinventa le cose del mondo ogni volta in modo diverso. Lila plasma, modella, forgia. Lila crea, e tra le altre cose crea e dà un senso anche ad Elena, che non si sa pensare a prescindere da Lila, che non riesce a liberarsi dal sentimento di subalternità e amore che prova nei suoi confronti.

Il nodo però sembra non sciogliersi, perché Lila è sempre Lila anche senza Elena, ma Elena non è Elena senza Lila. L'una con fatica si riscatta (e lo fa nella vecchiaia, cancellando con la propria persona i dolori di un'intera esistenza), l'altra ci prova per tutta una vita senza mai riuscirci. L'unica possibilità di redenzione di Elena rimane, fino alla fine, ancorata a Lila. 

Elena incarna la sofferenza e l'egocentrismo degli eterni secondi, ma la sua non è una semplice forma di autocommiserazione. La sua dipendenza e subordinazione emotiva a Lila si trasformano, nel tempo, in una volontà cocciuta e pericolosa di trattenerla dentro di sé. Le centinaia di pagine che inizia a scrivere dopo la scomparsa dell'amica ne sono la testimonianza: tutto quello che leggiamo di Lila è intrappolato nella parole ambigue di Elena, nel suo vano tentativo di fissarla, di mantenerla vicina a sé, di consegnarla all'eternità. Tutto ciò che Elena conosce dell'amica è nell'affetto e nell'astio che prova nei suoi confronti. Ma scrivere non basta se ciò di cui si scrive continua a scivolare e a sfuggire. Ecco perché la tetralogia termina con Elena che dice a se stessa: "Ora che Lila si è fatta vedere così nitidamente, devo rassegnarmi a non vederla più".

Tutte queste riflessioni sono il risultato di ragionamenti a freddo, ma durante tutta la lettura sono riuscita ad elaborare un unico pensiero certo: se è vero che tutti desideriamo essere Lila, tutti sappiamo di essere Elena.  
 
   

Commenti

  1. hai visto anche la serie tv o no?

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  2. queste riflessioni mi hanno fatta emozionare, bellissime. Questi libri mi hanno dato davvero tanto

    RispondiElimina

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