A me piace dire così: nei libri non voglio (più) cercare me stessa. Nei libri, i miei libri, anelo a cercare l'altro. L'altro che io non sono. L'altro che non potrò mai essere.
Sono giorni che penso a queste cose. Stasera, finalmente,
sono giunta ad una loro elaborazione.
Solo ora che sto crescendo e sto davvero entrando nella
crisi della mia instabile maturità, mi rendo conto della grandiosità della
parola "possibilità". E' una parola infinita e indefinita. Cosa le
manca? Praticamente nulla. Nella possibilità c'è tutto e il Tutto. E a chi
crede che leggere sia una perdita di tempo, mi piacerebbe dire esattamente
questo: leggere regala innumerevoli possibilità, prima fra tutte quella di
essere liberi, per un'ora o due o tre, di non essere solo ed esclusivamente se
stessi. Perché checché se ne dica, c'è una grandissima dose di presunzione e
narcisismo nel dire che si è fieri di riuscire ad essere sempre se stessi.
Io personalmente vorrei poter essere sempre diversa da
quello che sono. Vorrei poter essere quell'altro che guardo da lontano, e a cui
invano tendo la mano. Quell'altro che ammiro, o perché no, invidio e disprezzo.
Mi piacerebbe non essere schiava delle mie idee, della mia formazione, della
mia personalità, della mia emotività. Mi piacerebbe che non ci fosse più alcuna
identità in cui riconoscersi.
I libri grandi e belli sono quelli in cui non ci si riesce
a riconoscere, quelli che nella maniera più dura e cattiva suggeriscono che c'è
più di qualcosa al mondo su cui la mente non si è ancora soffermata.
Ed è per questo che credo con grande convinzione che i
libri non debbano insegnare proprio nulla: il senso delle cose non corrisponde,
voglio sperare, ad alcuna morale...
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